Fassino: “Così Torino può ripartire senza inventarsi altre vocazioni”
LA REPUBBLICA – 22/07/2017
di Piero Fassino
L’ex sindaco risponde dopo l’intervento di Giuseppe Berta su Repubblica Torino: “Necessario uscire dall’afasia dell’ultimo anno: non si promuove lo sviluppo gestendo l’ordinaria attività”.
Apprezzo che La Repubblica, raccogliendo le analisi di Giuseppe Berta, abbia promosso una riflessione sul futuro di Torino, tanto più necessaria di fronte ai segnali di ripresa economica che possono offrire nuove opportunità alla città.
La riflessione non può non muovere dalla trasformazione che negli ultimi vent’anni ha cambiato Torino, le sue vocazioni e la sua stessa identità, superando così la grave crisi che all’inizio degli anni ‘80, mise la nostra comunità di fronte a un fatto inedito: sotto l’incalzare della globalizzazione, il modello industrial- fordista che per un secolo aveva reso grande Torino non era più in grado “da solo” di garantire quell’alto tasso di sviluppo, quella piena occupazione e quella diffusa prosperità assicurata per decenni. Un passaggio traumatico che in pochi anni vide la fuoriuscita di migliaia di lavoratori da Mirafiori, la chiusura dei grandi stabilimenti Fiat di Rivalta, Lingotto e Chivasso e a cascata processi di ristrutturazione in gran parte del sistema produttivo, a partire dal vasto arcipelago della componentistica. Uno shock per una città che per decenni aveva potuto vantare il titolo di “capitale del lavoro”.
Poi mano a mano la città ha metabolizzato che era inutile crogiolarsi nella nostalgia del passato e, dall’inizio degli anni ‘90, ha intrapreso il cammino della costruzione di una nuova identità, fondata su un duplice obiettivo: non rinunciare al profilo industriale, ma se mai sostenerne un innalzamento della qualità tecnologica; e al tempo stesso investire su tutte le vocazioni riconducibili alla knowledge society, l’economia della conoscenza: l’innovazione tecnologica, la ricerca, la formazione universitaria, la finanza, terziario avanzato, la cultura, il turismo, i servizi alla persona.
Un percorso accompagnato e sostenuto con un vasto piano di riqualificazione urbana che ha utilizzato le aree industriali dismesse per ridisegnare la città, le sue infrastrutture – in primo luogo della mobilità, con il passante ferroviario, l’alta velocità, il sistema ferroviario metropolitano e il metrò – e l’allocazione delle nuove vocazioni. Esemplare il piano di riorganizzazione dei campus universitari: la nuova sede delle discipline umanistiche sull’ex Italgas, sezioni del Politecnico su aree dismesse a Mirafiori e al Lingotto, le scienze motorie all’ex Manifattura Tabacchi, le discipline mediche nella nuova Città della Salute sulle aree ex Avio, economia agli ex Poveri Vecchi, le discipline scientifiche a Grugliasco, le residenze universitarie sull’ex Lancia di Borgo S.Paolo, sulla Nebiolo e a Mirafiori.
Così anno dopo anno Torino ha cambiato pelle. Un processo ben rappresentato dalla trasformazione del Lingotto: là dove cento anni fa era sorto il primo stabilimento fordista del Paese, impiegando per decenni oltre diecimila operai, impiegati e tecnici, oggi sorgono: il polo fieristico della città – non a caso sede di grandi eventi, dal Salone del Libro ad Artissima – e un centro congressi, la pinacoteca Agnelli, il quartiere generale di Fiat Chrysler, i master del Politecnico, la sede dell’Authority dei trasporti, Eataly, centri commerciali e sale cinematografiche. E al servizio di questa pluralità di attività il metrò, la stazione ferroviaria del Lingotto e nuovi alberghi.
Un processo sviluppatosi non per sovrapposizioni casuali, ma frutto di una visione e di una regia realizzata dalle istituzioni, in primo luogo dall’amministrazione cittadina, lungo un arco di vent’anni che ha visto impegnate le amministrazioni Castellani, Chiamparino e Fassino. Con una elaborazione progettuale tradottasi in tre successivi Piani strategici (2001, 2006, 2014) e un piano regolatore finalizzato a una città policentrica: il centro storico con le attività istituzionali e culturali, il polo del Lingotto, la direzionalità di Porta Susa (Alta velocità, Politecnico, Energy center, Centro Congressi, Tribunale, Intesa S.Paolo, Rai, Città metropolitana) e in prospettiva metropolitana 2 e variante 200 per trasformare la Barriera di Milano. Un processo realizzato con coinvolgimento di tutti i principali stakeholder, dalle Università alle imprese, dal mondo della cultura alle organizzazioni economiche e sociali, dalle fondazioni bancarie alle professioni. Un percorso reso visibile dalla capacità della città di attrarre e realizzare grandi eventi di respiro internazionale, a partire dai Giochi del 2006 che costituirono un potente acceleratore nella trasformazione. Ed è così, trasfor-mando ogni giorno la città, che si sono contrastate le disuguaglianze e si è agito sulle periferie con una politica che la commissione parlamentare di indagine ha definito “modello positivo” di inclusione.
Ora la domanda a cui rispondere è: quel modello è esaurito? Io penso di no. E non per una astratta continuità, ma perché una città non inventa nuove vocazioni ogni vent’anni. Le vocazioni sono dinamiche di lungo periodo. Torino ha assunto la vocazione industriale tra il 1870 e 1880, dopo aver perso il ruolo di capitale d’Italia, e ha coltivato quella vocazione per un secolo, divenendo così la capitale manifatturiera. E quando lungo quei cento anni si sono manifestati periodi di crisi, li si è superati non inventando nuove vocazioni, ma riqualificando e rilanciando la vocazione dominante. Così oggi, io penso che il tema non sia inventarsi improbabili nuove vocazioni, ma se mai promuovere una “nuova grande stagione di trasformazione” che rappresenti un salto in avanti, un ulteriore innovazione in ogni settore di quella identità plurale costruita negli ultimi due decenni. Ad esempio, conferma del profilo industriale non può esaurirsi nel consolidare l’esistente, ma richiede di scommettere anche a Torino sui progetti “industria 4.0” investendo in nuovi e più avanzati settori ad alto valore aggiunto, cogliendo le enormi opportunita offerte dalle nuove tecnologie e dalla produzione in 3D. Così, dalla riconosciuta qualità del nostro sistema universitario si deve muovere per far di Torino un luogo di eccellenza internazionale della alta formazione. E ancora: il forte background industriale e l’eccellenza del sistema formativo consentono oggi di offrire Torino come grande hub di innovazione e di ricerca di rango mondiale, attraendo nuovi centri di ricerca e innovazione che si affianchino ai grandi gruppi – Fca, General Motors, General Electric, Telecom, Petronas, Edf – già oggi presenti. L’attrattivita culturale e turistica realizzata grazie agli investimenti di istituzioni pubbliche e fondazioni private è un patrimonio prezioso che non va disperso e su cui al contrario occorre investire ancor di più per aprire sempre di più la città al mondo. E in funzione di questi obiettivi si tratta di promuovere un nuovo ciclo di investimenti di trasformazione urbana e di dotazione infrastrutturale (metro 2, Centro Congressi, Citta Salute, Variante 200, Area Thyssen, Palazzo del Lavoro) che favoriscano l’attrazione di investimenti internazionali. E si espanda quella città policentrica che, distribuendo funzioni e servizi in tutta la città, innanzi la qualità della vita in ogni quartiere e anche nelle periferie. E, infine, Torino ha costruito negli anni un welfare di alta qualità – nell’infanzia, nelle politiche familiari, nella sanità, nell’assistenza sociale, nei servizi scolastici che offre oggi l’opportunità di fare dei servizi alla persona un motore di investimenti.
Questi obiettivi richiedono a loro volta tre scelte: collocare Torino in “spazi grandi”, l’area transalpina da Torino a Lione e il nord-ovest in un progetto di sviluppo comune tra Torino, Milano e Genova; dare dimensione metropolitana e regionale alle strategie di sviluppo, che non possono essere pensate solo a scala cittadina; attivare politiche che attraggano e mobilitino capitali privati italiani e internazionali, stante che oggi e nei prossimi anni non ci saranno più le risorse pubbliche del passato.
Insomma, aprire una nuova grande stagione di sviluppo di Torino è possibile. Ed è questo anche il terreno di formazione di unanuova classedirigente -nuova per generazione, cultura e visione che prenda nelle sue mani il destino della città. Tutto ciò chiama la politica e le istituzioni, in primo luogo la amministrazione cittadina, a un salto di qualità, uscendo dall’immobilismo e dall’afasia di questo ultimo anno. Non si promuove sviluppo se ci si limita a gestire l’ordinaria amministrazione; tanto meno se si teorizza una città più piccola e ripiegata su se stessa. Né si può vivere sulla rendita fornita dal dinamismo degli anni scorsi. A 100 km da noi c’è una Milano in grande spolvero, che grazie all’Expo sta nuovamenteaffermandosicome una attrattiva metropoli dirango europeo.Serve anche a Torino visione, capacità progettuale, ambizione. Le energie, le competenze, le esperienze per farcela ci sono. E’ responsabilità della politica non mortificarle e invece chiamarle a raccolta.